Acqua pubblica,gestione mista del servizio idrico,referendum che ciascuno interpreta modo improprio

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Chiedo ad un irriducibile sostenitore dell’acqua pubblica cosa voglia dire per lui “acqua pubblica”. “Vuol dire – dice – gestione dell’acqua senza profitto, come ha stabilito il referendum del 2011”. (Non dice acqua gratis, ma non escludo che lo pensi). Sicuro che il referendum ha stabilito questo? “Sicurissimo, il referendum ha abrogato il principio della remunerazione del capitale investito e dunque nessun profitto può essere riconosciuto al gestore del servizio idrico. Per questo sostengo la gestione pubblica”. Vuol dire che qualsiasi altra forma di gestione significa “privatizzazione dell’acqua”? “Esattamente”, è la risposta.

Questa posizione, per quanto rispettabile in linea di principio, fa a pugni con le leggi vigenti in materia di gestione idrica e con l’esito referendario. E’ vero che il referendum sull’acqua ha abrogato il principio secondo cui non si deve tener conto “dell’adeguatezza della remunerazione del capitale investito” contenuto nell’art. 154 del decreto legislativo n.152/2006, comma uno, ma l’effetto di questa abrogazione è stato quello di far venire meno il meccanismo automatico che garantiva al gestore privato del servizio idrico un profitto del sette per cento.

Ma nello stesso articolo 154, sempre al comma uno, è contenuto un altro principio di cui nessuno parla: quello della “copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio”. E’ il principio del Full Cost Recovery, previsto dalla normativa comunitaria e recepito dalla legislazione italiana. Essendo il servizio idrico un servizio a “rilevanza economica” (Corte costituzionale) si applica il principio del Full Cost Recovery. Tant’è vero che l’Autorità per l’energia elettrica, del gas e del sistema idrico nel 2012 (allora l’Arera non era stata ancora istituita), calcolò la nuova tariffa dell’acqua includendo, oltre agli altri costi, anche quello del capitale.

Contro questo metodo di calcolo, fecero ricorso al Consiglio di Stato il Codacons, la Federconsumatori, l’Associazione Acqua bene comune. Il Consiglio di Stato nel 2017, anche sulla base di un parere di tre professori universitari esperti in materia, rigettò il ricorso, ritenendo legittimo il metodo di calcolo della tariffa adottato dall’Agenzia dell’energia elettrica, del gas e del sistema idrico. Anche il Tar della Lombardia aveva adottato la stessa decisione.

Ora, anche a voler prescindere dal sistema normativo e dalle decisioni del Tar lombardo e del Consiglio di Stato, si può sostenere legittimamente che un imprenditore che investe capitali nella gestione idrica non abbia diritto ad un equo profitto che gli consenta di recuperare i “costi di investimento” come dice la legge? Un’azienda che non fa profitti prima o poi sarà costretta a chiudere e se chiude i suoi dipendenti perdono il posto di lavoro. A meno che non ci sia qualcuno che ritenga che l’imprenditore sia il buon samaritano o che l’economia di mercato sia stata abolita.



Il nostro sistema normativo prevede tre forme di gestione del servizio idrico integrato: quella interamente pubblica, quella privata e quella mista pubblico-privata. Qual è quella migliore? Non c’è una risposta univoca, dipende dalle condizioni di contesto. La scelta spetta all’Ati di Siracusa, la quale dopo aver optato in un primo tempo per la forma pubblica, ha scelto successivamente quella mista. E per me ha fatto bene, nelle condizioni date. Attenzione però, la gestione mista funziona solo a queste due condizioni: a) che il socio privato, l’impresa, abbia la professionalità necessaria; b) che il socio pubblico (i comuni) scelga amministratori di provata esperienza amministrativa e competenza. Se si procederà col metodo della lottizzazione politica, a prescindere dal merito, la buona gestione andrà a farsi benedire.

Naturalmente è assolutamente legittimo preferire la gestione pubblica ed io stesso se abitassi o Bolzano o a Treviso sarei per la gestione pubblica. Ma chi sostiene la gestione pubblica nella realtà siracusana dovrebbe preliminarmente verificare se: 1) i comuni hanno le risorse per finanziare le opere previste nel piano d’ambito (si tratta di un miliardo e 200 milioni); 2) hanno il personale, i tecnici, la competenza, la tecnologia per eseguire in proprio tali opere? La risposta è no.

Voglio far notare che in base al decreto legislativo n. 201 del 23 dicembre 2022, art.17, l’affidamento a società in house può essere fatto a condizione che l’ente locale “dia espressamente conto delle ragioni del mancato ricorso al mercato ai fini di un’efficiente gestione del servizio, illustrando i benefici per la collettività della forma di gestione prescelta con riguardo agli investimenti, alla qualità del servizio, ai costi dei servizi per gli utenti, all’impatto sulla finanza pubblica…”. Come si vede, nella gestione privata gli investimenti sono a carico degli enti locali, che, come detto, non sono in condizione di farli.




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